Cosa hanno in comune Jon Jones e Dustin Poirier?
Dana White, tra errori di gioventù e prove di maturità.
Ad inizio settimana Joe Duffy ha subito una concussione alla testa durante una sessione di sparring e, dopo le doverose analisi mediche, l’UFC ha preferito impedirgli di combattere stasera.
Forse non tutti sanno però che non è per questo motivo che il suo avversario, Dustin Poirier, non parteciperà nell’evento di Dublino.
Non lo farà perché si è rifiutato di farlo.
L’UFC aveva infatti convinto Norman Parke a sostituire all’ultimo momento Duffy per salvare la card, ma Poirier, dopo essersi consultato con il suo manager e il suo allenatore, ha declinato l’offerta.
Quando ho saputo la notizia, la prima cosa che mi è venuta in mente è stato Jon Jones; la seconda, in rapida successione, Dana White.
A fine agosto del 2012, ad una settimana da UFC 151, Dan Henderson dovette ritirarsi dall’incontro con Jon Jones a causa di un infortunio. L’UFC offrì a Chael Sonnen di sostituirlo, lui accettò, ma così non fece Jon Jones, naturalmente anche in quel caso su consiglio di manager e tecnici.
Due situazione del tutto simili, ma con conseguenze completamente differenti.
Del rifiuto di Poirier a combattere, in Italia non se n’è nemmeno sentito parlare per due motivi: uno, perché in terra nostrana le notizie di MMA arrivano col contagocce; secondo, perché nessuno ne ha fatto una tragedia greca, giustamente.
Del rifiuto di Jon Jones all’epoca invece l’UFC, o meglio Dana White, ne fece uno scandalo senza precedenti.
"UFC 151 verrà ricordato come l’evento che Jon Jones e Greg Jackson hanno ucciso," tuonò dopo aver deciso di cancellare, per la prima e unica volta nella storia dell’organizzazione, l’evento - lui e Zuffa, non Jon Jones o Greg Jackson.
Purtroppo aveva ragione: l’UFC riuscì in qualche modo a convincere il mondo delle MMA che la colpa era del campione dei pesi mediomassimi: ‘Bones’ il traditore.
Da allora, il rapporto già fragile tra Jones e i tifosi dell’UFC si ruppe definitivamente e gli applausi si trasformarono in fischi.
Con gli occhi della stampa e dei tifosi puntati addosso al lottatore di Albuquerque, Dana White e l’UFC riuscirono a farla franca.
Un comportamento da censurare, non solo eticamente: non esiste un argomento valido infatti per spiegare cosa ci possa guadagnare l’UFC ad infangare l’immagine di uno dei suoi campioni.
Esiste tuttavia una spiegazione semplice: Dana White era infuriato e ha aperto la bocca prima di accendere il cervello.
Non è stata né la prima né l’ultima volta che l’ha fatto. È impulsivo – come da lui stesso ammesso, anche se preferisce chiamarla sincerità – a volte al punto di sembrare infantile e non sempre dimostra di sapersi assumere le proprie responsabilità.
Non certo le doti ideali di un direttore d’azienda, ma bisogna dargli atto che impara in fretta e che
difficilmente commette due volte lo stesso errore. Come in questa situazione appunto: pur senza main event e co-main event, hanno mantenuto in piedi la card e si sono trattenuti dallo sparare addosso a Dustin Poirier, benché questi si sia rifiutato di accettare un nuovo avversario a pochi giorni dall’incontro.
Detto in altre parole, Dana White migliora. Tanto lui come l’UFC (d’altronde spesso i due sono indistinguibili l’uno dall’altro).
Non è l’unico caso.
Vedasi ad esempio il recente scandalo scoppiato in seguito alla pubblicazione dell’ormai celebre articolo su Deadspin.
I fatti si riferiscono ancora una volta a quel nefasto settembre 2012. Vitor Belfort risultò positivo a test antidoping precedenti l’incontro con Jon Jones in programma il 22 dello stesso mese; l’UFC, nonostante ne fosse al corrente, autorizzò comunque Belfort a combattere, all’insaputa del suo avversario.
Scandalo e vergogna, com’è giusto che sia.
Eppure, se al giorno d’oggi un tale episodio non si potrebbe ripetere, il merito lo si deve esclusivamente alla stessa UFC, che si è volontariamente privata del privilegio di deliberare in materia di doping ed ha deciso di coinvolgere l’USADA nella creazione della nuova, severa politica antidoping oggi in vigore.
Un altro errore che Dana White non fa più è quello di parlare a ruota libera di fronte a giornalisti e telecamere.
Fino ad un anno fa era solito soffermarsi a parlare coi giornalisti al termine della conferenza stampa dedicata agli atleti alla conclusione degli evento. Per una mezz’ora o più, il presidente dell’UFC si concedeva alle più svariate domande dei giornalisti. Poi improvvisamente a novembre dell’anno scorso smise di farlo, senza addurre alcuna spiegazione. Perché?
Perché meno di un mese dopo, il 16 dicembre 2014, Nate Quarry, Cung Le e Jon Fitch - tre ex fighter dell’UFC – decisero di trascinare Zuffa in tribunale con l’accusa di monopolio del mondo delle MMA (la denuncia).
Il processo è tuttora in vigore e tra le prove presentate dall’accusa ci sono proprio delle dichiarazione fatte da White ai giornalisti o pubblicate su internet attraverso vari social media come Twitter o Instagram.
Troppo tardi forse, ma nel frattempo il presidente dell’UFC ha deciso, se non proprio di cucirsi la bocca, di abbassare drasticamente il volume della sua voce.
Non conosco il mondo degli affari a sufficienza per poter giudicare quanto importante sia avere la capacità di imparare dai propri errori, né se la possibilità di sbagliare anche solo una volta sia un lusso che in alcune circostanze ti puoi permettere (sia il caso Jones/Belfort che il processo per monopolio sono ancora aperti). Tuttavia, per il momento l’UFC è sopravvissuta nonostante alcuni scivoloni macroscopici del suo uomo più importante e nel frattempo è cresciuta, si è fatta più matura e solida.
Oggi l’UFC è un’organizzazione che non denigra i suoi campioni; non copre il doping e anzi lo combatte attivamente; non si lascia andare facilmente a dichiarazioni ingenue e impulsive.
È composta da esseri umani, per cui di errori ne fa ancora e ancora ne farà.
Ma non è diabolica.